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Repubblica.it – Quando gli innovatori sbagliano. Nasce in Svezia il ‘Museo del Fallimento’

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Uno psicologo scandinavo ha voluto mettere assieme alcuni dei più grandi flop commerciali degli ultimi 40 anni. Dall’Apple Newton ai Google Glass, da Kodak a Sony: anche i  big hanno sbagliato almeno una volta

NON sempre una buona intuizione si trasforma in un grande successo. Anzi, spesso accade il contrario. Lo sanno bene migliaia di creativi, ricercatori, sviluppatori che ogni giorno tentano di trovare soluzioni per migliorare la vita delle persone. Da questa logica non sfugge il commercio. Quello dell’innovazione è un campo minato, tante le variabili da mettere in conto: magari i tempi non sono ancora maturi, le persone non sono pronte ad accogliere a braccia aperte una novità potenzialmente rivoluzionaria o, più banalmente, non si sono individuati i reali bisogni dei consumatori. Per questo, osservare come anche i grandi abbiano almeno una volta sbagliato, può essere confortante. Capire quanto sia difficile innovare è una lezione per tutti quelli che pensano di avere un’idea geniale ma che, alla prova dei fatti, tale non si dimostra. Un meccanismo mentale che Samuel West, uno psicologo svedese, ha voluto mettere alla base del suo Museo del Fallimento, una struttura che ha creato personalmente e che aprirà tra qualche settimana a Helsingborg, nel sud del Paese scandinavo.
 
“Il fallimento è necessario per l’innovazione”: è il motto che anima questa galleria dei più grandi flop commerciali degli ultimi 30-40 anni. Un viaggio ideale tra alcuni prodotti – al momento ne sono stati collezionati circa 60 – presentati come successi assicurati e che invece hanno tradito le attese, cadendo nell’oblio nel giro di poco tempo. Ognuno accompagnato dalla motivazione che, secondo West, ne ha sancito il fallimento. E se in qualche caso si poteva immaginare che l’avvenire sarebbe stato quantomeno complicato, si scopre che alcuni oggetti hanno (più o meno inconsapevolmente) gettato le basi per altre invenzioni, stavolta davvero epocali.

L’insegnamento che West, ricercatore dell’università di Lund con un dottorato in psicologia organizzativa, cercherà d’impartire attraverso il Museo del Fallimento è chiara: in una società, come quella attuale, che percepisce l’insuccesso come una macchia indelebile, dimostrare che anche una grande debacle può stimolare il progresso. In fondo lui, su questo, ha impostato la sua professione di consulente aziendale, specializzato proprio nell’aiutare a trasformare la crisi in una spinta per guardare con ottimismo al futuro.

Anche i big sbagliano: chiedete a Apple e Google. In un’era caratterizzata dal passaggio dall’analogico al digitale, dal dominio di internet, dalle comunicazioni in mobilità, dai social network era inevitabile che la gran parte dello spazio espositivo del museo venisse occupata da ‘esperimenti tecnologici’. Tutti rigorosamente falliti, anche se per ragioni differenti. La cosa sorprendente è che siano rappresentati molti colossi dell’informatica. Così, ad esempio, anche Apple ha avuto il suo passo falso: era il 1993 e il Newton – un palmare con pennino dalle dimensioni e dal peso che lo rendevano tutt’altro che tascabile – veniva pubblicizzato come il dispositivo del futuro, salvo poi ritirarlo dal mercato pochi anni dopo a causa delle scarsissime vendite. Anche se, a posteriori, si può dire che abbia spianato la strada alla rivoluzione mobile vinta grazie all’iPhone e all’iPad.

Come non può sorridere neanche Google: se nello sviluppo di piattaforme web è praticamente imbattibile, l’azienda di Mountain View si è vista aprire le porte del Museo del Fallimento per aver prima fortemente creduto e poi abbandonato in fretta il progetto dei Google Glass. Chi, invece, era partita da presupposti giusti è stata Kodak quando (nel 1995) fece debuttare la DC40, prima fotocamera digitale, tentando di anticipare la concorrenza nel superamento della fotografia tradizionale su pellicola. Peccato che poi, gli altri, concentrarono maggiori risorse in un settore – che effettivamente spopolò all’inizio del nuovo millennio – lasciando solo le briciole all’azienda americana, condannandola al fallimento.
 
Dall’home-video alla fotografia: le vittime del digitale. Da un’epoca all’altra, la musica non cambia. Ognuna ha la sua meteora. Negli anni ’70 Sony decise di lanciare il Betamax, antesignano del videoregistratore, convinta di poterlo imporre come formato di registrazione ‘ufficiale’. Ma la storia, come sappiamo, ha detto il contrario e l’avvento del Vhs ha fatto saltare il banco. E non importa che le immagini fossero migliori delle videocassette che poi abbiamo avuto tutti tra le mani. Probabilmente l’eccessiva grandezza dei lettori – oltre al fatto che l’azienda giapponese non ha mai voluto cedere i diritti d’utilizzo del formato ad altri – lo hanno relegato a prodotto per addetti ai lavori, mantenendolo in vita fino ai giorni nostri (la produzione fu interrotta nel 2015) ma comunque agonizzante.

Anche se sono gli anni duemila, quando la riduzione dei costi di produzione e la fame di tecnologia sempre nuova diffusa tra le persone hanno dato il via alla guerra dell’innovazione, ad aver fornito il materiale maggiore alla collezione di Samuel West. I ragazzi stavano sostituendo le console portatili per i videogiochi con telefoni cellulari sempre più piccoli? Allora Nokia tentò di unire i due dispositivi in un solo dispositivo – N’Gage – un telefonino ‘ibrido’ che permetteva di chiamare e di giocare, contemporaneamente. Ma la risposta del pubblico fu nettamente inferiore alle attese.

A differenza di quanto successe pochi anni dopo con gli smartphone. I social network diventavano imprescindibili nella vita di ognuno? Un’azienda statunitense pensò di commercializzare il Twitter Peek, un piccolo dispositivo (simile a un Blackberry) nato esclusivamente per twittare. Un limite troppo grande: era il 2009 e il primo iPhone era già arrivato da due anni.

Negli stessi anni, l’ecosostenibilità e le esigenze di mobilità spingevano per la diffusione di energie alternative anche nei trasporti. Il Segway (la biga elettrica, a due ruote, piccola e maneggevole) sembrava la risposta giusta. A distanza di poco tempo, però, è diventato solo uno sfizio per muoversi nel tempo libero, confinato tutto al più al ruolo di mezzo per visite turistiche. Quando le premesse erano ben altre.  
 
Nel ‘Museo del Fallimento’ non mancano alcune delle trovate più bizzarre nel campo della pubblicità. Tentativi, più che vere e proprie innovazioni. Generi diversi accomunati dal fatto di aver mancato l’obiettivo. Nelle sale di Helsingborg trovano posto ben due prodotti targati Coca-Cola: la Coke II, una nuova formulazione della famosa bibita studiata a meta degli anni ’80 per tamponare l’exploit della Pepsi, e la Coca BlaK, uno strano mix tra l’originale e il caffè. Un grosso errore strategico fu anche quello di Bic quando decise di lanciare la linea Bic for Her, penne biro dedicate esclusivamente al pubblico femminile; un boomerang che portò l’azienda ad essere accusata addirittura di sessismo.

Hanno invece tentato di sfruttare la forza del proprio brand sia Colgate, quando pubblicizzò la lasagna surgelata (ma non faceva dentifrici e colluttori?), sia Harley-Davidson, quando per un attimo lasciò il manubrio delle motociclette per vendere il profumo ispirato ai suoi veicoli leggendari; missione fallita. Alla voce memorabilia va invece annoverato il DVD di Blockbuster, la grande catena di noleggio di film (che ebbe notevole gloria anche in Italia) affossata dallo streaming online. Mentre a quella ‘azzardo’ va messa Rejeuvenique, una maschera di bellezza che prometteva di ringiovanire magicamente il viso dell’utilizzatore; bastava averne il coraggio: lo faceva, infatti, attraverso delle scariche elettriche.

Infine anche un volto noto, prima di diventare il personaggio più discusso (e potente) del mondo ha collezionato il suo fallimento: è Donald Trump che, ormai trent’anni fa, realizzò una versione personalizzata del Monopoli (Trump, the game). Ma, almeno questo, potrebbe presto tornare di gran moda, uscendo dal Museo del Fallimento. 

Tratto da Repubblica.it

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